lunedì 31 gennaio 2011

Addio, mia amata Juve. È finita un'era (A-Team su LaStampa.it)

A questo punto le disamine tecniche non servono più. Stiamo assistendo a un evento epocale ed è inutile soffermarsi sui dettagli del contingente, sulle miserie dell’hic et nunc. Dobbiamo prenderne atto e riconsiderarci. Scrivo con i polpastrelli che grondano sangue, ma sono costretto ad ammetterlo: dopo 110 anni e rotti, siamo diventati una provinciale. Di lusso, grazie ai suoi 10 milioni di tifosi, ma pur sempre una provinciale.

La storia del calcio è piena di queste parabole. Squadre importanti, blasonate, con coppe e scudetti in bacheca che, improvvisamente, scompaiono. Implodono.

Per noi l’implosione è stata Calciopoli, ovvio. Ma anche quattro scellerati anni di gestione fallimentare, che dalla cacciata di Deschamps a oggi non ne ha imbroccata una. Uno scempio senza soluzione di continuità. Possiamo discutere quanto si vuole coi se e coi ma. Personalmente, ritengo che con quello che è stato speso dalla promozione, saremmo potuti risorgere anche dopo la legnata della serie B, ma è un’opinione come tante. Troppe.

Quel che vale davvero è che la F.C. Juventus non è più quella che amavamo. Impareremo ad amare anche questa, esclusa per chissà quanto dalla nobiltà calcistica, ma non nel ricordo di quella dei trionfi in Italia, in Europa e nel mondo.

Ve lo ricordate il Borussia Dortmund che ci portò via la Champions nel 1997? Dopo anni di anonimato, tre anni fa quasi retrocedeva. O l’Olympique Marsiglia che accecò il Milan di Galliani? Da dieci anni non vince nulla. Il Feyenoord ormai è una squadra capace di perdere 10-0 col Psv. Il Nottingham Forest, che pure vinse due Coppe Campioni a fila, ormai traccheggia tra Championship e League One (le serie B e C inglesi). Per tacere delle vere meteore tipo Stella Rossa e Steaua.

Il mio augurio, a questo punto, è di avere la chance che ha avuto l’Aston Villa, campione d’Europa 1982, acquistato da Randy Lerner, già boss della franchigia NFL dei Cleveland Browns. Non stanno vincendo lo stesso, ma almeno la speranza ora loro possono coltivarla.

domenica 30 gennaio 2011

Pensierino pre-Udinese

Nella conferenza stampa di ieri Andrea Agnelli ha scaricato sulla gestione precedente anche la situazione attuale. Qualcuno gli dica che Blanc è ancora amministratore delegato. Buona partita.

venerdì 28 gennaio 2011

Gli zeru tituli e il zeru giocu di Ciro Delneri (A-Team su LaStampa.it)

Nell'A-Team dell'11 maggio scrissi che scegliendo Delneri la Juve avrebbe abdicato da grande d’Europa. Non mi sbagliavo evidentemente, ma non credevo che già a gennaio avremmo visto una squadra da zeru tituli matematici e, soprattutto, con zero giocu.

Perché la sua storia dimostra che non è un vincente, ma da Delneri mi sarei aspettato almeno una squadra di ubbidienti soldatini, capaci di mettere in campo il suo celebre e monocorde 4-4-2. Senza invenzioni (impossibili con “quel che passa il convento”), ma con tanta disciplina, rigore tattico, qualche geometria.

Invece, dopo sei mesi, del gioco “delneriano” non se ne scorge neppure il fantasma. Un’involuzione inspiegabile: prima s’è cominciato a prendere valanghe di gol, poi a non segnare più, ora non si fa neanche più un cross dal fondo (la chiave di volta del 4-4-2). Come si diceva una volta, schema alla viva il parroco: palla lunga dalla trequarti, calciata a occhi chiusi. Soltanto questo.

Esattamente un anno fa, era il 29 gennaio, dopo aver subito l’eliminazione anche dalla Coppa Italia ai quarti di finale (subendo il gol sconfitta contro l’Inter a San Siro al 44’ del secondo tempo) veniva esonerato Ciro Ferrara. In campionato la Juve era sesta come oggi, con 33 punti (contro i 35 odierni), aveva segnato 33 gol (contro 35) e subiti 28 (25). Insomma, siamo praticamente in copia conforme.

Eppure quello che possiamo chiamare Ciro Delneri è saldo in panchina, organico a presidenza e direzione generale. A questo punto, forse, è pure giusto così: lasciamolo arrivare a fine stagione, perché non è da Juve cambiare quattro allenatori in un due stagioni. Ma cominciamo subito ad attrezzarci per il prossimo anno.

Altrettanto in fretta è necessario che la Società cominci a mostrare i muscoli nelle sedi che contano davvero, perché non veder fischiare un rigore colossale come quello di Mexes su Del Piero è un insulto prima ancora che un’ingiustizia. Poi, amen che non si meritava di vincere: perdere sul campo è sport, perdere in politica è umiliazione a cui non ci si deve abituare.

mercoledì 26 gennaio 2011

Seedorf, il gol più bello della mia vita (.3)


Clarence Seedorf, durante una lunga intervista per FourFourTwo inglese, mi ha raccontato del gol che critici e fans ritengono il più bello della sua intera carriera: un golazo de larga distancia, una sassata da più di 40 metri nel derby di Madrid del 1997. Ma lui preferisce quest’altro:


"Per i miei fans quel missile all’Atletico Madrid è il miglior gol che abbia mai segnato. In effetti, è pazzesco pure dal punto di vista emotivo, perché il giorno prima è nato il mio primo figlio. Sono arrivato la mattina dall’Olanda, ho pranzato, mi sono riposato un po’, poi sono andato a giocare. E ho segnato quel gol in un derby! Detto questo, ci sono gol che considero tecnicamente più difficili: per esempio, col Torino, dopo averne dribblati tre. O, più ancora, il mio primo gol che ho fatto alla Juve: un sinistro al volo in movimento tecnicamente difficilissimo. A casa ho appeso la foto di Buffon in volo, mentre la palla s’infila all’incrocio. Il gol all’Atletico però ammetto che ha tanti pregi: tra cui essere premiato con 250 bottiglie di vino rosso. Considera che sono astemio, perciò calcola quante feste ho dovuto dare!"

Della stessa serie, già pubblicati: Zlatan Ibrahimovic e Dejan Stankovic

martedì 25 gennaio 2011

Revisionismo morattiano

In un paese dove il revisionismo storico è assurto ad artistico esercizio di fantasia, non mi meraviglia, durante un’occasione istituzionale sentir dire al Presidente dell’Inter: “Il fatto che l'Inter abbia vinto dopo Calciopoli dimostra quanto questa sia stata una vera truffa per il calcio italiano, una prova in più di quanto stava accadendo”.

Quello che, invece, mi sconcerta è che l’occasione istituzionale si sostanziava in un seminario di aggiornamento per giornalisti sportivi a Coverciano e nessuno dei partecipanti abbia sentito il dovere di rilevare al conferenziere che stava platealmente confondendo la causa con l’effetto. Insomma, o in molti s’erano distratti al buffet o a Coverciano ti allenano a fare il reggi-microfono.

La tesi di Massimo Moratti avrebbe anche potuto avere un riscontro scientifico, se solo l’Inter avesse vinto il campionato 2006-2007 schierando questa formazione: Julio Cesar, Cordoba, Materazzi (Zé Maria), Samuel, Favalli, Figo (Recoba), Cambiasso, Pizzarro (Cruz), Stankovic, Adriano. Che è quella che il 2 ottobre 2005 perse 2-0 a Torino (Trezeguet, Nedved) e il 12 febbraio 2006, con pochi ritocchi, perse in casa 1-2 (Ibra, Samuel, Del Piero).

Ovvero, inoppugnabilmente, si sarebbe dimostrato che senza Calciopoli quella stessa Inter che prima prendeva 15 punti di distacco (e la stagione prima ancora 14, e quella ancora prima 23 dal Milan e 10 da noi), dopo avrebbe vinto. Senza cambiare le condizioni.

Invece, l’anno successivo, scese in campo – è bene ricordarlo: senza avversari – dopo una campagna acquisti generosa e improbabile: Maicon, Maxwell, Crespo e – soprattutto – Patrick Vieira e Zlatan Ibrahimovic. Due che, in condizioni normali, avrebbe visto solo sull’album delle figurine Panini.

Si dirà: Moggi condizionava il mercato di tutti, quindi era impossibile fare una campagna acquisti decente. Ma da qui ad acquistare quelle che oggi lo stesso Moggi, arrotondando per eccesso d’ottimismo, definisce “mezze pippe”, ce ne passa. Perché ora l’artistico revisionismo ci dimostrerà che l’Inter acquistava solo i Ronaldo e i Figo, ma a qualche eremita sarà concesso di ricordare che la lista era assai più lunga.

Segnateveli che fra un po’ non se ne troverà più traccia: Farinos, Dalmat, Georgatos, Vampeta, Gilberto, Rambert, Sforza, Karagounis, Wome, Zé Maria, Solari, Hakan Sukur, Sorondo, Sergio Conceiçao, Emre, Zé Elias, Lamouchi, Guglielminpietro, Kily Gonzales, Coco, Carini. Chissà quanti ne scordo, ma non l’indimenticabile Gresko. Senza contare gli ex-campioni tipo Batistuta o i colpi di mercato come le cessioni al Milan di Pirlo e Seedorf e al Real di Roberto Carlos.

Non per nulla, in tempi non (meno?) sospetti, il Presidente Gentiluomo provò a ingaggiare proprio Belzebù Moggi. Me lo rivelò l'interessato nell'aprile del 2006 e lo riportai in Moggi Bianco & Noir. Una confessione che ebbe grande risalto e rimbalzò su tutti i giornali. Non venne mai smentita. Eccola:

“Nel mio giro d’Italia manca Milano, eppure ci sono andato spesso così vicino. Questo non lo sa nessuno e vorrei che lo tenessi per te: conservo ancora in cassaforte il contratto con l’Inter firmato nel ’98. Perché saltò il mio trasferimento alla corte di Massimo Moratti? Non avevo ancora preso servizio ufficialmente, che vengo a sapere che il Presidente ha intenzione di vendere Francesco Moriero. Io mi attivo, faccio una serie di colloqui e in quel periodo ero in ottimi rapporti col Middlesbrough, a cui un anno prima avevo venduto Fabrizio Ravanelli. Il “Boro” mi sigla un pre-accordo per una cifra mostruosa. Orgoglioso, chiamo Sandro Mazzola, che era direttore sportivo dei nerazzurri, perché non voglio fare quello che lo scavalca e anzi gli propongo di venderselo agli occhi del Presidente come un suo colpo: “Comunica pure che abbiamo concluso un affarone”. Al che, demoralizzato, Sandro mi comunica che Moratti, con un’iniziativa personale, ci ha ripensato e ha confermato il contratto al giocatore il giorno prima. Così ho capito che l’Inter non aveva bisogno di uno come me e, se mai fossi stato tentato di dimenticarmene, ho conservato il contratto per ricordarmelo. Mi è servito anche quest’anno, quando l’Inter ha contattato Capello e me.”

domenica 23 gennaio 2011

Quel pallone del Capitano all'ultimo respiro (A-Team su LaStampa.it)

Quando a tempo stra-scaduto ho visto il pallone calciato all’indietro da Marco Motta scivolare verso il Capitano solo sul dischetto del rigore ho sentito il profumo della vittoria più gustosa: quella immeritata e rubata all’ultimo respiro. Invece, il respiro me l’ha rotto Alex, ciccando un pallone, che mai nella vita ha ciabattato così. Zolla o febbre o, forse, tutte e due.

E pareggio fu. Ammettiamolo, probabilmente meritato, considerato anche il gol divorato da Pazzini. Uscire imbattuti da Marassi non è mai indecoroso, però quell’ultima occasione lascia molto amaro in bocca.

Per il resto, ci si sarebbe potuti beatamente assopire sugli spalti se non si fosse corso il rischio di mai più svegliarsi, visto il freddo siderale. La noia si tagliava col coltello e la colpa, va detto, non era solo bianconera.

Qualche bello sprazzo l’ha fatto intravedere Martinez, che sembra messo lì apposta a ingolosirci, ma poi non lo vediamo mai. Chissà quando la sfortuna lo abbandonerà e riusciremo a vedere se e quanto vale davvero. Sissoko non m’è dispiaciuto e non vorrei che la voglia di sbolognarlo altrove accecasse la sua reale utilità.

Taccio sui difensori di fascia, che almeno quando non si pigliano gol è crudele infierire. Il gioco di Delneri? Aspettiamo partite più favorevoli, ma l’unica discesa sulla fascia s’è vista quando il febbricitante Capitano ci ha fatto tremare all’ultimo respiro. Per lanciare il pallone da centrocampo, gli schemi sono tutti uguali.

sabato 22 gennaio 2011

Mister B. Alle radici del male anche Craxi e Veltroni

Any one of the many allegations levelled at Silvio Berlusconi over the years would probably be sufficient to sink a prime minister in most countries, but the scandal which could finally undo him is perhaps the most scurrilous of them all. It combines an underage belly dancer, ribald sex parties and claims of political interference with the police.

La stampa estera fatica a comprendere come uno scandalo di tale portata possa non aver già indotto il Primo Ministro alle dimissioni. In effetti, se non si conosce a fondo la storia recente (ma neppure troppo) di questo Paese, il rebus è irrisolvibile. Il Parlamento è spogliato della sua funzione e ormai i giochi politici si sviluppano nelle aule dei pubblici ministeri e, soprattutto, nei programmi televisivi, dove la disinformazione, la faziosità prezzolata e la farsa prevalgono sui concetti.

In due soli giorni ho avuto l’avventura di imbattermi ad "Anno Zero" in una strepitante Santanchè (colei che coerentemente un anno fa concionava: “le italiane devono avere, così come sono certa che già hanno, la percezione che per Silvio Berlusconi le donne sono in posizione orizzontale, mai verticale”), un berciante Sgarbi a "L’ultima parola", capace di mandare fuori dei gangheri persino Gianluigi Paragone, e un impresentabile Paolo Liguori a "Linea Notte". La linea politica comune: urlare più forte possibile per rendere inintelleggibile il dibattito. Si sa, che si fanno corsi apposta, ma i tre esempi sono apparsi ben oltre i limiti anche del celebre kit di Forza Italia.

Naturalmente, l’atteggiamento riverbera anche sui titoli dei giornali, su tutti quello del fratello del Premier, "Il giornale", e quello di proprietà di Antonio Angelucci, senatore intimo del Premier, "Libero". Titoli tanto sfacciati da essere impossibili, se non fossero sotto dettatura. Il mio preferito? Questo, del 17 gennaio:



Poi, si sa, che in politica come in fisica se si esercita una forza se ne scatena sempre una uguale e contraria, da cui i vari santorismi e travaglismi. 

A che dobbiamo tale umiliante situazione, incomprensibile al resto del mondo? Per trovare l’origine primigenia di questa dissoluzione della coscienza critica italiana e dell’impossibilità per chissà quanti anni ancora (ben oltre la vita terrena del nostro anziano Premier), dobbiamo risalire al 1984, tanto per sfatare il mito serpeggiante che la Prima Repubblica era meglio di questa.

Il 16 ottobre 1984 accadde che i telespettatori di Piemonte, Lazio e Abruzzo che da poco stavano abituandosi alla novità delle tivù commerciali trovarono la scritta: “Per ordine del pretore è vietata la trasmissione in questa città dei programmi di Canale5, Rete4 e Italia1, regolarmente in onda nel resto d'Italia”. A quei tempi, infatti, era in vigore una legge, la Mammì, che impediva la programmazione di privati su scala nazionale e, soprattutto, impediva allo stesso editore di avere troppe testate, non importa se televisive, radiofoniche o cartacee. Una norma condivisa nei paesi più sviluppati per impedire un'insana concentrazione di potere e di abuso di posizione dominante.

Già allora Berlusconi era palesemente fuorilegge, possedendo tre canali televisivi, una testata a tiratura nazionale ("Il giornale"), una concessionaria di pubblicità. Eppure, con un colpo di mano, già due giorni dopo il Primo Ministro di allora s’impegnò a varare due decreti legge che salvarono l’impero del nuovo tycoon di Milano 2. Due decreti così sfacciati che sono conosciuti come “decreti Berlusconi”.

Il 20 ottobre 1984, il Presidente del Consiglio ricevette questa missiva dal beneficiato: “Caro Bettino grazie di cuore per quello che hai fatto. So che non è stato facile e che hai dovuto mettere sul tavolo la tua credibilità e la tua autorità. Spero di avere il modo di contraccambiarti. Ho creduto giusto non inserire un riferimento esplicito al tuo nome nei titoli-tv prima della ripresa per non esporti oltre misura. Troveremo insieme al più presto il modo di fare qualcosa di meglio. Ancora grazie, dal profondo del cuore. Con amicizia, tuo Silvio”.

Bettino Craxi poi commenterà quello stesso giorno alla stampa: “Mi ha dato un certo fastidio, come utente televisivo, vedere quegli spazi neri”. Ricevendo da Botteghe Oscure un imprevedibile avallo: “Ci sono poi anche le abitudini degli utenti, consolidate in anni di utenza televisiva, che non possono essere ignorate. Non è con il black-out che si risolvono i problemi del mondo televisivo”. Il responsabile all’informazione che dichiarò tale oscenità fu un certo Walter Veltroni, colui che ora chiede a Berlusconi di dimettersi per il bene del Paese.

Ci avesse pensato per tempo, ora non saremmo qui a chiederci perché fino al 1993 la gente sapesse assediare l’Hotel Raphael, mentre oggi guarda con occhi vacui Sgarbi che bercia che Berlusconi è una vittima del bigottismo come Pasolini.


giovedì 20 gennaio 2011

Se fossi juventino, m'incazzerei

(MF) John Elkann, presidente di Exor, la cassaforte della famiglia Agnelli, forte di un miliardo di liquidità in cassa, avrebbe in mente di iniziare il 2011 all'insegna di un investimento immobiliare imponente a Londra attorno a uno degli sport inglesi per antonomasia: il cricket. Secondo Milano Finanza, si tratta di un'operazione stimata complessivamente 400 milioni di sterline compreso il costo dei terreni.

In un paese mediamente normale.1

Quelli che si chiedono che cosa sia il conflitto d'interessi, si rispondano guardando (leggere non serve: basta guardare) questa prima pagina. In un paese mediamente normale non potrebbe mai accadere e, di questo, dobbiamo ringraziare anche l'ineffabile Massimo D'Alema.

mercoledì 19 gennaio 2011

Sarebbero fatti privati, se non li pagassi io


Poiché questa consigliera regionale guadagna 8500 euro lordi al mese, più la diaria netta di 2600, più spese di trasporto per la benzina e benefit vari (compresi i biglietti per San Siro per tutte le partite), ora che il perché della sua presenza lì non è più un gossip, ma una certezza, che siano fatti privati del Premier, da cittadino lombardo, non mi convince più tanto. Ma al proposito mi piacerebbe sentire l’opinione del presidente Formigoni, che l'ha accolta in lista.

lunedì 17 gennaio 2011

Tra 1 e 12 una grana da risolvere al volo (A-Team su LaStampa.it)

Un buon brodino, essenziale per non perdere il treno visto che tutte, fuorché il Milan (fuori portata) e Napoli, in un modo o nell’altro hanno vinto. Se anche le sviste arbitrali cominciano a prendere il senso unico verso le grandi (grazie ai fuorigioco “impercettibili”, questo weekend sono state beneficiate Inter, Roma e probabilmente Lazio, in quelli precedenti il Milan), allora vuol dire che è questo il momento dove si comincia a fare sul serio. Aver vinto è stato basilare.

L’involuzione di gioco è tuttavia lampante. Fino alla partita con la Lazio (16° giornata), si costruivano almeno 5 o 6 palle gol a partita. Poi amen se non si segnava, ma le occasioni fioccavano. Da allora il motore s’è grippato e, quando si segna (4 gol in 4 partite), lo si fa in maniera casuale. Stavolta grazie al solito capolavoro del Capitano e a una sventola di Aquilani su palla vagante. Insomma, poche idee ma confuse.

Che è l’aria che si respira anche nella gestione dello spogliatoio. Dopo il caso Sissoko, che per Delneri è diventato improvvisamente indispensabile, cova sotto le ceneri quello dei portieri. Storari, pur mantenendo un profilo lodevolmente defilato, è arrabbiato come un puma e avrebbe esplicitamente chiesto la cessione immediata. La Società non ci sente, ma la causa del malumore è soltanto sua.

Quando il portiere venne prelevato per l’insensata cifra di quasi 5 milioni di euro, gli vennero fatte quelle promesse e rassicurazioni, che spiegano anche l’uscita del Mister di un solo mese fa: “Buffon dovrà dimostrare di meritare il posto da titolare, perché qui non c'è nessun atto dovuto nei confronti di nessuno”.

Dichiarazione presto rimangiata, visto che Gigi è tornato (logicamente) titolare, nonostante col Catania non è che abbia dimostrato nulla che già non fosse conclamato. E cioè che la sua presenza è indispensabile non soltanto per quello che fa tra i pali, ma anche per il carisma che emana (avete visto come ha esultato al gol di Alex?).

La presa di posizione di allora, alla luce di quanto sta succedendo oggi, rivela un quadro di preoccupante confusione anche nella gestione degli uomini. Questa, sia chiaro, non è responsabilità del solo Delneri, probabilmente non abituato a gestire campioni (ai quali, se si chiamano Buffon e hanno seguito la Juve in B, l’atto dovuto glielo si deve garantire, eccome), ma soprattutto di chi evidentemente era convinto di poter vendere Buffon, tra agosto e oggi, nonostante giacesse in barella.

Errori di inesperienza di una nuova dirigenza a cui va concessa una fase di rodaggio? Va bene, ma intanto le grane vanno risolte e quella di un numero 12 al quale fino a ieri si garantiva l’1 è un elemento di forte tensione. Lo si risolva al volo, prima che diventi esplosivo.

venerdì 14 gennaio 2011

Facebook e l'uovo di Colombo

Un bel grafico di Business Insider che spiega come anche su Internet vige la legge della semplificazione. Facebook rischia in popolarità non perché ci deruba ogni possibile elemento di privacy, ma perché fa perdere tempo.

L'aria fresca di Alex e SuperGigi (A-Team su LaStampa.it)

Vincere la Coppa Italia per tornare ad abituarsi a capire cos’è la vittoria. Ecco la traduzione dell’improbabile avverbio in chiave superlativo assoluto del dg. Marotta: “Coppa assolutissimamente importante”. Altrimenti, tutta questa enfasi per un torneo snobbato da tutti (Catania compreso) sarebbe inspiegabile. Letto così però condivido il neologismo.

Al di là di questo, la partita contro una squadra che aveva l’unico obiettivo di farsi eliminare senza umiliazione, non regala troppi spunti, ma sarebbe sbagliato sottovalutare la prestazione di Buffon e Del Piero, i migliori in campo.

Intanto, il fatto che SuperGigi abbia potuto ricordare ai troppi smemorati chi è, deve costringerci a qualche riflessione: sull’ingratitudine di questo mondo e sullo stato della nostra difesa. Ragionamento, quest’ultimo, che dovrebbe riverberare in sede di mercato (ma, abbiate pietà, non citatemi Barzagli).

Poi, il Capitano. Era tempo che non lo vedevamo così lucido ed è chiaro che la formazione messa in campo dal Catania non è irrilevante. Ma rimane la dimostrazione che se fai l’allenatore, puoi anche chiamarti Churchill, ma le tue strategie non valgono un centesimo rispetto alla classe dei campioni. Michel Platini provocava, dicendo che il Mister, se è bravo (e parlava quando era allenato dal Trap!), incide al massimo per il 20 per cento. Le Roi è nato ottimista. Per me, l’allenatore è come l’arbitro: meno si vede la sua mano e più merita. Le partite le vincono sempre i campioni, mai gli schemi.

Il mercato juventino finora è andato in direzione opposta, cercando pedine perfette (poi bisognerebbe vedere fino a che punto) per il celebre 4-4-2, ma senza quel quid in più che crea la differenza tra il buon giocatore e il campione (non parlo di fuoriclasse, perché abbiamo capito che non possiamo permetterceli). Però quando Alex ieri sera inventava sprazzi di calcio geniale io ho risentito l’ossigeno riempirmi i polmoni. Aria fresca, pulita. Era molto che non ne respiravo. E il guaio è che ormai non me ne stavo accorgendo neppure più.

P.S.: Chi si aspettava Forlan, si ritroverà Floro Flores. Sembra un’allitterazione ma non è la stessa cosa. Floro Flores (22 gol in tutto nelle ultime 4 stagioni) nell’Udinese è la riserva di Sanchez, quello che andrà all’Inter. Questo, detto senza ironia, è la foto dello stato attuale della Juventus.

giovedì 13 gennaio 2011

Stanković, il gol più bello della mia vita

Per FourFourTwo inglese mi sono fatto raccontare dal protagonista uno dei gol più pazzeschi degli ultimi campionati.



È un’insidiosa serata di campionato quella che attende l’Inter al “Luigi Ferraris” di Genova, lo stadio più “british” d’Italia. Il Genoa ha segnato 9 gol nelle prime 3 gare interne e l’Inter si presenta senza la coppia regina, Eto’o e Milito, in infermeria. Invece, alla mezzora i nerazzurri sono già 2-0 (Cambiasso, Balotelli) e, durante il recupero del primo tempo, ecco una delle reti più folli del calcio italiano. Finirà 5 – 0 per l’Inter (con le altre reti di Vieira e Maicon), ma è questa a passare alla storia. La racconta direttamente il suo autore, il serbo Dejan Stanković.

“Tutti mi chiedono quale sia il mio gol più bello e poi si danno la risposta da soli: sì, certo che è quello lì. Amelia, il portiere del Genoa, riceve un passaggio indietro e con la palla al piede esce dall’area. Era fuori posizione, ma proprio tanto. Io sono sulla riga di centrocampo sulla destra e faccio qualche passo verso il centro. Quella è la mia fortuna. Perché lui sbaglia completamente il rinvio, lo schiaccia, e la palla viene verso di me.

A me è bastato coordinarmi bene, senza neanche colpire troppo forte, perché il pallone arrivava veloce. L’ho preso bello bello, collo pieno e a quel punto l’unica paura era che recuperasse. Invece, se riguardi le immagini, noti che Amelia si ferma un attimo. Forse non ci credeva neanche lui e quello lo frega: gol. I miei compagni, tutta la panchina e anche Josè (Mourinho) sono corsi in campo a festeggiare e io ho esultato facendo con le mani intorno agli occhi il segno del binocolo per dire “guarda da dove l’ho fatto”: erano 54 metri. Negli spogliatoi tutti a chiedermi: “Ma come cacchio ti è venuto in mente di tirar da lì?”. Boh.

Comunque, non è stato un caso: avevo già fatto un gol così in Jugoslavia, ma non c’era la tivù, perché era un’amichevole tra la Nazionale e una selezione scelta dai giornalisti. In porta c’era Aleksandar Kocić. Poi ho preso una traversa in un Serbia-Azerbaigiàn e un’altra volta contro la Bosnia a Sarajevo è finita sulla parte alta della rete. Se un gol così l’avesse segnato Messi o Cristiano Ronaldo? Oh, sarebbe di sicuro il gol del secolo, ma io mi accontento del mio piccolo: l’ho fatto e se lo ricordano in tanti. E, se capita, ci riprovo”.

lunedì 10 gennaio 2011

Ora fateci capire dove si nasconde il progetto (A-Team su LaStampa.it)

Non venitemi a dire che siamo piombati nel tunnel della crisi. Non ne siamo mai usciti, da un anno abbondante a questa parte. Abbiamo cambiato tre allenatori e due dirigenze, ma la media punti rimane quella. Che è da squadra da metà classifica. A essere pignoli, questo è proprio il punto più basso del dopo Calciopoli. Alla fine del girone d’andata, Ranieri aveva fatto 37 e 40 punti, Ferrara 33. Delneri 31. Per quel che può contare, naturalmente, perché il discorso è molto, molto più ampio.

Dopo l’indecorosa batosta col Parma chiedevo quale fosse in Società “la linea definita”, come la definisce il Presidente. Credevo fosse Barzagli, ero ottimista: è stato Toni.

Quanto meno, in questa stessa situazione, lo scorso anno si cercava un sostituto in panchina. Poi, visto che al peggio non c’è mai fine, è arrivato Zaccheroni, ma una voglia di reagire si percepiva. Aleatoria, confusionaria, impotente, ma c’era. Oggi, senza aver visto in quattro mesi neanche un abbozzo del celebre gioco delneriano, il mister è comodamente assiso al suo posto. Che, poi, diciamolo, lui ce l'ha messa tutta per perdere, ma con quel materiale umano in campo manco con San Gennaro in panchina la Juve faceva risultato a Napoli.

Son già pronto a leggere i titoli: diamo tempo al progetto, dirà la Società. Quanto? Ora è giunto il momento di scoprire le carte. Mettere in campo contemporaneamente tre vecchie glorie del Mondiale 2006 (Del Piero, Toni e Grosso) può far parte di qualsiasi altro progetto che non sia una partita celebrativa della finale di Berlino?

È evidente che questa situazione è il cascame di Calciopoli. Inutile tornarci su. Ma invece di puntare tutto (almeno a parole) sulle rivincite processuali, perché Andrea Agnelli non cerca la rivincita sulla storia (e su chi di Calciopoli ha beneficiato) impegnandosi a riportare questa squadra ai fasti di un tempo? Perché non investire in un vero progetto da grande squadra? Perché arrendersi alla mediocrità? Perché, per la miseria, si rompe Quagliarella e si prende Toni? Dov’è la logica, prima ancora del progetto?

Budget, fair play finanziario, quotazione in borsa. I parafulmine sono sempre gli stessi e passano per i libri contabili. Senza una squadra competitiva, però, il nuovo stadio che senso ha? È soltanto un investimento immobiliare? Continuando così ci giocheranno soltanto squadre italiane, perché non avremo coppe da giocare. E nei centri commerciali si venderanno magliette di Maccarone e Bojinov. Francamente, non capisco.

C’è ancora tutto il girone di ritorno e bisogna stringere i denti, perché se non si raddrizza la barca stavolta si affonda definitivamente e non si torna più su. Però la Società, in primis il Presidente, deve dirci sul serio che ne vuol fare di questa Juve. Dobbiamo attendere dieci anni? Ditecelo e fateci mettere il cuore in pace. Nel frattempo, tiferemo Ferrari, Valentino, seguiremo il basket e faremo la spesa nel nuovo Delle Alpi. Comprando la maglietta di Maccarone, consapevoli che il suo ingaggio  non è insipienza, ma un progetto a così lungo termine che oggi è nascosto oltre l’orizzonte.

giovedì 6 gennaio 2011

Back to the future. Da Ciro a Gigi un anno passato inutilmente? (A-Team su LaStampa.it)

Buon 2010! No, non ci sono errori: è inutile scomodare il 2011, per la Juve l’anno non sembra passato. O, se preferite, sembra passato inutilmente. Chissà che cosa starà pensando Ferrara se già qualche settimana fa rimarcava che, tutto sommato, la sua gestione equivaleva a quella di Delneri. Anzi, volendo essere cinici, lo scorso anno, il giorno dell’Epifania lo passavamo contenti per la vittoria proprio a Parma (2-1) e avevamo 2 punti in più.

Giovinco e Palladino che umiliano la loro ex squadra nel loro ex stadio. Se non fossero cazzottoni sul nostro muso sarebbe una splendida storia di sport da raccontare. Invece, più coerentemente, dovremmo provare a rispondere ad Aquilani che si domandava dove potesse arrivare la Juve, dopo le partite di inizio anno (Parma e Napoli). A dir la verità, non è che ci si metta molto: a gennaio siamo fuori da due competizioni su tre. E la terza è la Coppa Italia.

Una Juve da vergognarsi. Certo, se in venti minuti si mette insieme immane sfiga (Quagliarella), immonda idiozia (Melo) e arbitraggio discutibile (il gol annullato a Chiellini che, comunque, ci sta e la lettura della reazione di Melo), che possiamo pretendere? Però qualche ragionamento a freddo va fatto.

Già contro il Chievo avevamo criticato la gestione dell’inferiorità numerica di Delneri. C’è una categoria di allenatori che, per dar la scossa alla squadra, non s’arrocca, ma controbatte: dentro un’altra punta. Lui, invece, continua a togliere gente capace di tenere palla: col Chievo Quagliarella (dentro Salihamidžić), stavolta il Capitano (dentro Pepe). Alex ha giustamente sacramentato: “Ma puoi togliermi dopo mezz’ora, anche se stavo facendo quello che mi chiedevi?”. Ma il Mister pare avere una predilezione per chi corre, piuttosto che verso quelli che sanno giocare.

Volevamo una squadra specchio del suo allenatore?
L’abbiamo. Solo che è il contrario di ciò che ci si augurava: provinciale, senza fantasia, senza leader. Nessuno che sappia caricarsi sulle spalle il peso delle situazioni avverse. Le subiamo in silenzio e i Giovinco paiono giganti. Triste.

È un momento difficile. L’unico là davanti che girava, s’è rotto dopo tre minuti. Il Presidente commenta così: “Ho sempre detto che questa squadra è competitiva, può vincere con chiunque, ma ci sta perdere in una giornata così. La nostra linea è definita, ora aspettiamo di sapere cosa ha Quagliarella, augurandoci che non ci siano problemi particolari”. Ci sta? Prenderne quattro in casa dal Parma ci sta, Dottore? E, ora, attendiamo di vedere la linea definita. Se è Barzagli, ha trovato il modo migliore per rinvigorire la tentazione che scorre sotto la pelle di un numero crescente di tifosi: l’azionariato popolare.

mercoledì 5 gennaio 2011

Ci voleva Wired.it

Orcozzio, mi hanno costretto a essere d'accordo con Christian Rocca: stavolta lo quoto.

domenica 2 gennaio 2011

Il derby di Jomo e Kaiser, una storia sudafricana (da Max, giugno 2010)

Congedo definitivamente il 2010, riproponendo il mio pezzo migliore dell'anno, pubblicato su Max di giugno.


Il New York Times del 6 giugno ’77 non aveva esitato a definirlo “l’uomo destinato a rimpiazzare Pelé”. Non è Cruyff, Platini, Kempes o chiunque altro di quell’epoca possiate considerare degno, perciò non perdete tempo: tanto Jomo Sono non lo conoscete.

Eppure, nella follia di quel titolo, c’era l’intuizione verso un uomo che al calcio avrebbe dato molto di più della sua fama. Che qui è praticamente nulla, ma che nel 2004 gli è valsa il 49simo posto nella Top 100 degli uomini più influenti del Paese, organizzata dalla tv di Stato sudafricana. Un risultato che avrà fatto rodere d’invidia il numero 73, il tycoon sudafricano Kaizer Motaung.

Perché il loro è un derby calcistico, ma lo è soprattutto di fama, mito e potere. Una sfida cominciata sui polverosi campi di Soweto, rimbalzata nelle arene della NASL (North America Soccer League), esplosa nella Premier Soccer League sudafricana e che ora rischia di riflettersi anche sul Mondiale.

Nei tardi anni ’60 Motaung era una stellina degli Orlando Pirates, la più celebre squadra della township di Johannesburg. Un team che, nonostante la ferocia dell’apartheid, aveva guizzi di insospettabile glamour: tanto per dirne uno, lo stemma col Jolly Roger, teschio e tibie incrociate, era un tributo hollywoodiano ai bucanieri di Errol Flynn.

A quell’epoca essere un calciatore di successo era l’unica via di realizzazione per la popolazione nera. Ma Kaizer, di nome e di fatto, pensava già in grande e quando nel 1968 gli Atlanta Chiefs pensarono di creare un team tutto di stranieri (con 40 anni d’anticipo su Inter e Arsenal), lo adocchiarono durante un trial in Zambia. Quello stesso anno gli Atlanta Chiefs vinsero il campionato, grazie al loro nuovo capocannoniere sudafricano.

Tuttavia Kaizer non tagliò il cordone ombelicale con i Pirates e anzi, come un David Beckham ante litteram, cominciò a fare su e giù, alternando le stagioni calcistiche da un continente all’altro, fino a quando nel 1971 ritenne giunto il momento di non dipendere più da nessuno e fondò a Johannesburg i Kaizer Chiefs, a cui impose lo stesso logo della squadra di Atlanta. Col risultato che sui campi del Sudafrica cominciò a scorrazzare un manipolo di giovanotti vestiti di giallo con stampato sul petto un capo indiano, con copricapo pennuto.

Per Motaung il calcio è sempre stato uno strumento e in quell’ottica va letta una delle sue azioni politicamente più elevate: l’ingaggio nel ’79 del veterano “Lucky” Stylianou, primo bianco a giocare nella Lega dei neri. Un atto quasi sovversivo.

D’altronde, in Sudafrica il calcio non è mai stato solo uno sport. Nel caso dei Kaizer Chiefs è talmente evidente che il suo fascino tracima: l’omonima rock band indie inglese è un tributo al capitano del Leeds United Lucas Radebe, cresciuto proprio nella squadra di Motaung.

Calcio, politica, affari: tutto il mondo è paese, ma in Sudafrica forse di più. Pur giocando in casa nel nuovissimo Soccer City (sede il prossimo mese della finale mondiale), i Kaizer Chiefs hanno voluto erigere uno stadio di proprietà e in questi giorni s’inaugura a Krugersdorp, a una quarantina di chilometri da Johannesburg, lo stadio Amakhosi (ovvero, “chiefs” in zulu), 55 mila posti e 195 “executive suites”, senza neppure essere tra gli impianti della Coppa del mondo. Per il Presidente un altro diluvio di rand.

Si sarà capito che Motaung ha sfruttato appieno la sua fortuna sportiva e oggi è innanzi tutto un facoltoso uomo d’affari ben diversificati, con inevitabile proiezione sul controllo dei media.

Dobbiamo aspettarci un futuro in politica? Non è da escludere, ma se accadrà dovrà rinnovare anche lì il derby personale con chi ha fatto tutto come lui, però meglio.

Giusto per cominciare anche la storia di Jomo Sono parte da Soweto e proprio negli Orlando Pirates, dieci anni dopo Kaizer. E dieci anni dopo, nel 1979, pure lui attraversa l’oceano per approdare nella NASL. Però, tanto per far mettere in chiaro le differenze, Somo si ritrova in campo direttamente con O’Rey. Qui la storia si fa nebulosa, perché gli annali della defunta Lega (soppiantata nel ’93 dalla MLS) sono farraginosi. 

Secondo gli storici del soccer, però, Sono avrebbe giocato con Pelé non più di qualche settimana, per essere poi spedito ai Toronto Blizzard, dove rimase fino all’82 e per poco non s’incrociò con Roberto Bettega, che giunse la stagione dopo. Da sempre abile nella gestione di se stesso, questo dettaglio è trascurato nella biografia ufficiale.

Però forse è davvero ininfluente, perché ciò che conta è che l’essere una delle prime e più sfolgoranti celebrità nere sudafricane contribuì a scardinare dalle fondamenta gli atroci preconcetti segregazionisti. Con Kaizer Motaung, fu una delle prime prove viventi che i neri potevano scalare gli odiosi ostacoli sociali imposti dal regime. Non va inoltre trascurato che Jomo ebbe la concreta opportunità di ottenere asilo dagli Usa, ma vi rinunciò. Ufficialmente per tornare ad aiutare l’amato nonno alla pompa di carburante (un modo per versare benzina anche proprio sul mito), ma di fatto per realizzare il suo desiderio più grande: sfruttare la sua fortuna per aiutare i ragazzi di Soweto.

Fu così che, esattamente come Motaung, per un certo periodo si dedicò al pendolarismo calcistico tra Sudafrica, Canada e Colorado riuscendo poi ad acquistare un club tutto suo nella Lega sudafricana. Se Motaung aveva i Kaizer Chiefs, lui s’inventò un colpo di teatro ancora più roboante: acquisì il più famoso club “bianco”, l’Highland Park, e lo ribattezzò Jomo Cosmos. Imponendo, manco a dirlo, il logo della squadra di New York (comunque assai più sobrio del capo indiano di Kaizer).

Nel 1987 vinse il campionato e anche Somo trovò nel calcio uno straordinario volano per  i suoi business. Da quelli del tutto lontani dal calcio, come l’apertura del primo Kentucky Fried Chicken in Sudafrica, alla scalata ai vertici della SAFA, la South African Football Association, alla scoperta di talenti da spedire in Europa. Qualcuno pure da noi, come Philemon Masinga (Bari e Fiorentina) e Mark Fish (Lazio).

Sia come sia, Jomo Sono oggi è considerato il talento più luminoso della storia calcistica sudafricana ed è lui che in panchina ha portato i Bafana Bafana al primo e finora unico scintillìo internazionale: la finale di Coppa d’Africa ’98, la prima giocata dopo la caduta del regime segregazionista. Per molti analisti è soprattutto per merito suo e delle sue forti credenziali (anche nel settore del petrolio) se stiamo per assistere al primo Mondiale nel continente africano.

Tuttavia il derby Sono-Motaung ha regalato al Sudafrica molti altri, veri vincitori: le migliaia di ragazzi che a Soweto hanno potuto trovare riscatto giocando a calcio. O addirittura, citando Tony Karon, celebre blogger di Città del Capo, coloro che dal calcio hanno trovato la forza per combattere l’apartheid stesso: «Le prime celebrità nere che hanno saputo usare il loro talento per arricchirsi fino ad acquistare un club fu la negazione della versione segregazionista secondo cui l’identità nera non avrebbe saputo elevarsi dalla condizione tribale e rurale. Loro erano “hip” e stilosi e il loro gioco parlava di libertà, creatività e potere.

Volenti o nolenti, furono modelli sociali per migliaia di ragazzi neri di città, quelli che dal ’76 in poi decisero di riprendere possesso del proprio destino».
Un destino che dall’11 giugno sarà esposto alle telecamere di tutto il mondo, che non immagina neppure di avere un debito verso due vecchie stelle del calcio americano anni ’70.